Storie di Mare: Il mare, visto da chi voleva stare sulla terraferma
Ecco una nuova storia di mare! “Nella vita avevo una sola certezza, volevo stare alla larga dal mare”
– Oddio, sto male, si muove tutto, lo vedi?
– Sei sul pontile. Non si muove un bel niente.
– Non è vero! Si muove! Il mare si muove! E io sto male! Te l’avevo detto! Soffro il mal di mare!
– Siamo su un fiume. Ecco. Non capisco questa mania che ha mio marito di voler sempre precisare tutto.
Sono qui, su un pontile che oscilla di continuo (checché ne dica lui) che osservo la sua barca.
Intendiamoci, non è che io non subisca il fascino delle barche a vela. Le trovo affascinanti!
Eleganti, maestose, comunicano un senso di grande libertà.
Provo lo stesso sentimento anche verso i tucani e le scarpe con il tacco a spillo. Tutte cose belle.
Finché le ha qualcun altro.
Sono nata e cresciuta in città. Ho familiarità con il ritardo della metropolitana, con la nebbia, con lo sferragliare dei tram. Ho preso aerei egiziani e autobus canadesi. Non mi sarei mai sognata di salire su una barca a vela.
Ah, dimenticavo un ulteriore dettaglio. Io soffro il mal di mare. O meglio, io soffro qualunque mezzo mi trasporti. L’auto, il treno, l’aereo. E il mare è la cosa peggiore. Perché, se non lo sapeste, il mare si muove di continuo. E non ditemi che devo guardare l’orizzonte, annusare il prezzemolo, masticare lo zenzero o tenere il timone. Non ditemi che è psicosomatico. Io quando poso i piedi su quell’oggetto oscillante provo l’unico desiderio di tornare a terra.
Dopo aver armeggiato con corde colorate e di diversa lunghezza – è inutile, non le chiamerò MAI cime, il vostro gergo non mi avrà! La barca non è una specie di stato autonomo con una lingua propria!! – mio marito avvicina la barca al pontile e ci salta sopra. Mi guardo intorno atterrita. Non scherziamo. Non penserà che possa salire anche io così? Nelle navi da crociera non ci sono scale mobili e ascensori e cose così? Ho visto tutte le puntate di Love Boat, la barca a vela non può essere tanto diversa!
Mentre fisso nel vuoto in attesa che si materializzi qualche utile strumento, un castoro dalle inquietanti proporzioni fa capolino in acqua. Lancio un urlo terrificata. Riappare mio marito, flemmatico come di consueto.
– È una nutria. Il fiume è pieno. Non ti agitare. Si fanno le pellicce con le nutrie, sei una donna, dovresti saperlo.
– Se è per questo si fanno anche le bistecche con gli struzzi, questo non presuppone che io ne abbia mai visto uno da vicino.
– Nei fiumi sono piuttosto comuni – risponde imperturbabile.
La nutria mi guarda. È evidente che non vede l’ora che io cada in acqua per farsi una pelliccia di essere umano e vendicare l’intera razza.
– Sono animali vegetariani – prosegue mio marito leggendomi nel pensiero.
– Anche la tua amica Alessandra era vegetariana e l’altra sera al ristorante ha ordinato la tartare di manzo.
Che ne so io della coerenza di una nutria? E se cambia idea? E se fosse solo una moda quella di dire “No, non mangio esseri umani?”.
Mio marito mi strappa alle mie riflessioni appoggiando sul pontile una tavoletta di legno che dalla barca va al pontile. Sarà larga una ventina di centimetri. Lo osservo.
– Ecco, sali.
Non scherziamo. Io ho il quarantuno di piede. Peso un po’meno di sessanta chili. Non faccio il funambolo di mestiere. Non posso salire su quella tavoletta di legno legata alla barca da due nodini insulsi! Nemmeno la nutria potrebbe salire con quell’affare!
Mio marito mi guarda paziente e attende. Anche la nutria, ferma in mezzo al fiume, attende il suo pasto.
Valuto le ipotesi. Scappare, svenire, strisciare di pancia. Non so decidermi. Così mentre mio marito mi tende una mano mi avventuro. La nutria sta col fiato sospeso.
Un piede dopo l’altro arrivo sull’oggetto semovente, con un balzo sgraziato sono a bordo, picchio lo zigomo su una sbarra di metallo, inciampo in una specie di grande volante e picchio la fronte su una sbarra orizzontale, messa a casaccio nel mezzo della barca.
– Hai visto che ce l’hai fatta? Tutto a posto? Ti sei fatta male da qualche parte?
La domanda corretta è se NON mi sono fatta male da qualche parte.
L’oggetto semovente continua ad oscillare pericolosamente, forse non è abituato ad un peso come il mio. Guardo malinconicamente il pontile che ho appena lasciato. Sono in balia dei flutti. La nutria si allontana indispettita, è evidente che oggi dovrà accontentarsi di un menu vegetariano.
Mio marito sorride imperterrito.
– Potresti aiutarmi con le cime? Ti devo spiegare come farle passare dalle bocche di granchio e metterle attorno alle bitte negli ormeggi. Poi ti faccio vedere la barca.
La botta in testa deve avermi causato dei danni irreparabili al cervello. Non ho idea di cosa stia dicendo. Riesco a formulare un unico pensiero.
Fatemi scendere.
Viviana Capurso
Assegnista di ricerca presso l’Università di Udine, viaggiatrice priva di senso dell’orientamento e cuoca scarsa, ancora non ha deciso cosa farà per cena. Per lavoro scrive articoli che nessuno legge, nel tempo libero cerca il riscatto. Cresciuta sulla terraferma ambirebbe a restarvi. Costretta a salire su un oggetto oscillante ha un fitto dialogo con le bocche di granchio, armeggia ma non ormeggia, osteggia gli osteriggi. Teme le nutrie convertite alla dieta onnivora, gli algidi marinai croati e i fiocchi che non siano sui pacchetti. Dell’oggetto oscillante non ha ancora capito a cosa serve quel grande volante, la miriade di cordine colorate e quelle tendine triangolari appese a un palo. Soffre il mal di movimento e nella vita aveva una sola certezza, voleva stare alla larga dal mare.
“Alla larga dal mare” fa parte di una raccolta di racconti pubblicati nel volume “Il mare delle Donne” – Ugo Mursia Editore (https://goo.gl/L99C4i)